Page 98 - IANUS n. 26 - Fideiussioni omnibus e intesa antitrust: interferenze e rimedi
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ANTONIO VALITUTTI
Il che equivale a dire che anche la combinazione di più atti, sia pure di natura
diversa, può dare luogo, in tutto o in parte, ad una violazione della normativa
antitrust, qualora tra gli atti stessi sussista un «collegamento funzionale» – non certo
un «collegamento negoziale», come opina parte della dottrina, attesa la vista
possibilità che l’«intesa» a monte possa essere posta in essere, come nella specie,
anche mediante atti che non rivestono natura negoziale – tale da concretare un
meccanismo di violazione della normativa nazionale ed eurounitaria antitrust. In
altri termini, detta violazione è riscontrabile in ogni caso in cui tra atto a monte e
contratto a valle sussista un nesso che faccia apparire la connessione tra i due atti
«funzionale» a produrre un effetto distorsivo della libera concorrenza di mercato.
Ebbene, la funzionalità in parola si riscontra con evidenza quando il contratto
a valle (nella specie una fideiussione) è interamente o parzialmente riproduttivo
dell’«intesa» a monte, dichiarata nulla dall’autorità amministrativa di vigilanza,
ossia quando l’atto negoziale sia di per sé stesso un mezzo per violare la
normativa antitrust, ovvero quando riproduca – come nel caso concreto – solo
una parte del contenuto dell’atto anticoncorrenziale che lo precede, in tal modo
venendo a costituire lo strumento essenziale di attuazione dell’intesa
anticoncorrenziale. Non è certo la deroga isolata – nei singoli contratti tra una
banca ed un cliente – all’archetipo codicistico della fideiussione, ed in particolare
agli artt. 1939, 1941 e 1957 c.c., a poter, invero, determinare problemi di sorta,
come è ormai pacifico nella giurisprudenza di legittimità, in termini di effetto
anticoncorrenziale. È, invece, il predetto «nesso funzionale» tra l’«intesa» a monte
ed il contratto a valle, emergente dal contenuto di tale ultimo atto che – in
violazione dell’art. 1322 c.c. – riproduca quello del primo, dichiarato nullo
dall’autorità di vigilanza, a creare il meccanismo distorsivo della concorrenza
vietato dall’ordinamento. In siffatta ipotesi, la nullità dell’atto a monte è – per
vero – veicolata nell’atto a valle per effetto della riproduzione in esso del
contenuto del primo atto.
E ciò è tanto più evidente quando – come nella specie – le menzionate deroghe
all’archetipo codicistico vengano reiteratamente proposte in più contratti, così
determinando un potenziale abbassamento del livello qualitativo delle offerte
rinvenibili sul mercato. La serialità della riproduzione dello schema adottato a
monte – nel caso concreto dall’ABI – viene, difatti, a connotare negativamente la
condotta degli istituti di credito, erodendo la libera scelta dei clienti-contraenti e
incidendo negativamente sul mercato. Sotto tale profilo, è del tutto palese che la
previsione di cui all’art. 2, c. 3, della l. n. 287 del 1990, laddove stabilisce che «le
intese vietate sono nulle ad ogni effetto», costituisce una chiara applicazione del diritto
eurounitario, il quale – come statuito dalla citata giurisprudenza europea –
afferma che la nullità (sancita dall’art. 101 del Trattato sul funzionamento
dell’Unione Europea) è «assoluta», e che l'accordo che ricada sotto questa
disposizione è privo di effetti nei rapporti fra i contraenti e «non può essere
opposto ai terzi». Si tratta, invero, proprio di quella nullità «ad ogni effetto» che
sancisce la norma nazionale succitata, e che si riverbera sui contratti stipulati a
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